Testata online: www.economymagazine.it
Di Luca Fumagalli – Co-founder e Senior Franchising Consultant Affilya
Uno dei settori più colpiti dalle crisi – prima quella pandemica e poi quella “bellica” – degli ultimi tre anni, è quello della ristorazione. Cause e problematiche sono ben note. Nel nostro Paese le chiusure e le restrizioni hanno falcidiato i consumi alimentari fuori casa, facendo crollare il giro d’affari complessivo dagli 85 miliardi di euro del 2019 ai 54 miliardi del 2020. Con la graduale riapertura nel 2021 è iniziato il recupero, che ha portato a concludere l’anno con un fatturato globale a 65 miliardi di euro (fonte Fipe). La fine delle restrizioni ha favorito un rimbalzo dei consumi che ha fatto respirare il settore e che a Dicembre 2022 consentirà di registrare un giro d’affari quasi in linea con i risultati pre-Covid (Fonte: Trade Lab). Il trimestre estivo infatti ha fatto registrare insperati sold-out in molti ristoranti, grazie anche alla consistente ripresa dei flussi del turismo internazionale. Tutto bene, dunque? Non proprio. La pandemia ha lasciato più di uno strascico nelle abitudini di consumo, modificando alcuni comportamenti tradizionali, uno su tutti quello legato alla cosiddetta “pausa pranzo” lavorativa. Lo smart working, inevitabile causa Covid per una grande maggioranza dei lavoratori, ha riguardato nel 2021 il 21% degli occupati, con un impatto negativo di circa 4 miliardi di euro sui consumi fuori casa del nostro Paese. Quest’anno la maggior parte delle persone è ritornata al lavoro in presenza, ma al di là delle dinamiche contingenti non è difficile ipotizzare che la tendenza avrà comunque riflessi nel medio e lungo periodo. Un altro fenomeno impattante è quello definito “the Great Resignation”, che ha interessato milioni di persone, rivoluzionandone l’approccio al mondo del lavoro. Anche in questo caso uno dei comparti più interessati dalle difficoltà di reclutamento e di fidelizzazione delle risorse umane è stato quello della ristorazione.
Al problema di far fronte, in piena crisi di “vocazioni”, ad un turnover di personale senza precedenti, si aggiungono le complicazioni legate ai temi caldi di questo autunno: costi dell’energia fuori controllo, materie prime in sensibile aumento, una forte spinta inflattiva e il timore di una recessione che rischia di cucire le tasche ai consumatori. Dunque, se anche i volumi di vendita in molti casi sono tornati ai livelli del passato, i maggiori costi e le spese correnti mettono gli operatori del settore di fronte ad un bivio: ribaltare i rincari sui clienti finali, con il rischio di vederli scappare, oppure puntare a mantenere il fatturato, con la certezza di minori margini e di una perdita di redditività. A parziale consolazione delle imprese della ristorazione c’è però una consapevolezza acquisita nell’ultimo anno: di operare in un campo nel quale la domanda appare particolarmente “rigida”. In altre parole, agli italiani si può togliere tutto, ma non il piacere di un caffè al bar, di un pranzo al ristorante con la famiglia, di un aperitivo con gli amici o di una cena in buona compagnia. Così, se pure il quadro congiunturale nei prossimi mesi si presenta a luci ed ombre, le previsioni di medio periodo appaiono decisamente positive: per il settore della ristorazione italiana si stima infatti una crescita su base annua dell’8%, almeno fino al 2026 (fonte Euromonitor). Ma chi si potrà avvantaggiare degli spazi di mercato che si stanno aprendo? I dati relativi al periodo 2021-2022 ci danno qualche indizio. Gli operatori indipendenti quasi certamente faticheranno di più ad agganciare il treno della ripresa. Molti di loro, con modelli di business obsoleti, erano già in difficoltà prima del Covid e non ce l’hanno fatta a superare la crisi: nell’ultimo biennio sono ben 35.000 le imprese che hanno chiuso, provocando la perdita di più di 200.000 posti di lavoro (Fonte Deloitte). Analisi Cerved e indagini presso i principali fornitori del canale Ho.Re.Ca. segnalano però che c’è almeno un altro 25-30%, delle oltre 300.000 imprese nel comparto che versa in uno stato di elevata vulnerabilità finanziaria. A fronte delle attività che chiudono o faticano a stare a galla, ci sono invece degli imprenditori della ristorazione che stanno cogliendo le opportunità di mercato. Sono le catene (in franchising e dirette), che negli ultimi due anni hanno aumentato il loro peso sul totale dei consumi fuori casa dal 7% al 9%, con un volume d’affari salito a 6,6 miliardi di euro contro i 5,7 del 2019. Non solo, nel periodo considerato il numero dei locali in catena è cresciuto da 9.300 a 10.000 (Fonte TradeLab).
Perché la pandemia, per questi operatori, ha funzionato come acceleratore? Gli elementi vincenti della ristorazione in catena sono molti. Tra i più rilevanti c’è la capacità di proporre al cliente finale un’esperienza che parte dal cibo ma va ben oltre, comprendendo il posizionamento prezzo, il servizio, l’ambiente e la cornice del locale, la location, la prossimità alla clientela e, non ultima, la digitalizzazione, che rende più accessibili ordini, acquisti e pagamenti. Per non parlare delle pluralità di “touch point” su cui può contare oggi un marchio di ristorazione: televisioni, radio, fattorini brandizzati che consegnano, insegne che fanno da cartellone pubblicitario l’una per l’altro locale della catena, shopping bags griffate e persino i vecchi volantini ma, soprattutto, siti, social e app di delivery. Oggi non è più possibile sottovalutare il potere dell’online nelle decisioni di acquisto nel mondo della ristorazione: sono oltre 43 milioni gli italiani che usano i social network e ben il 60% dei touch point che influiscono nella scelta di un locale è digital (Fonte: Pescaria).
Non a caso i giovani delle generazioni native digitali sono i più grandi clienti delle catene: oltre 2,3 miliardi di euro, ovvero quasi il 40% del fatturato complessivo delle reti dell’ultimo anno, è generato dai 18-34 enni. Le catene piacciono a questo pubblico anche perché portano innovazione nell’offerta: pokè, etnico, fusion, healthy, burger e pizza “gourmet”, vegetariano e vegano… In Italia i format appartenenti a piccole e grandi catene sono ormai 700, sviluppati da circa 500 operatori che spesso intercettano prima dei competitor indipendenti le nuove tendenze, o addirittura se ne fanno promotori. Andando “dentro il motore” delle catene, tuttavia, si scoprono altri elementi che fanno la differenza tra la ristorazione moderna e quella tradizionale. Ogni nuovo format nasce con logiche manageriali ben diverse dallo spirito pionieristico dei ristoratori del passato, che facevano gli ordini al fornitore sulla carta del pane e pagavano con i soldi presi dalla cassa (se ce n’erano).
Oggi sempre più spesso si parte da un business plan, da investimenti mirati, da modelli studiati per dare profittabilità a fronte di una esperienza di consumo che il cliente possa apprezzare e voglia ripetere. C’è maggiore attenzione ai costi, ad un impiego corretto e produttivo del personale, ad una gestione che sia trasparente e sostenibile nel tempo. Infine, grazie al livello crescente di digitalizzazione della clientela – prenotazioni e ordini online, menù digitali e, soprattutto, impiego di sistemi di pagamento mobile e contactless che sono cresciuti in due anni del 41% – le imprese della ristorazione moderna possono contare anche sulla potentissima arma dei dati. Le aziende più strutturate acquisiscono e gestiscono dati di store traffic per profilare il consumatore oltre ad utilizzare CRM e sistemi di loyalty per fidelizzarlo. Fidelizzazione che passa anche attraverso un altro dei fenomeni che la pandemia ha contributo a consacrare: il food delivery.
Ordinare cibo a domicilio è una tendenza che non ha certo finito la sua corsa con la riapertura dei locali nel post-Covid. Se nei periodi di restrizione ha raggiunto incidenze elevate -13 % dei consumi cosiddetti Fuori Casa- per poi ritornare su quote del 4-5% nel secondo semestre del 2021, restano comunque tantissimi gli Italiani che hanno “forzatamente” superato il tabù delle app, dell’ordine online, del pagamento con la carta, e almeno altrettanti quelli che hanno scoperto il piacere di ricevere cibo pronto dal proprio ristorante preferito, restando seduti sul divano di casa.
Oggi il food delivery ha un tasso di penetrazione nella popolazione italiana di circa il 22%, con proiezioni crescita al 35% nel volgere di 5 anni (Fonte: Statista). Food Delivery e catene viaggiano a braccetto: nell’ultimo anno queste ultime hanno consegnato a domicilio circa 800 milioni di euro di ordini, pari al 13 % del valore totale del canale. Inutile sottolineare come anche in questo caso la ristorazione indipendente, soprattutto la parte più piccola e meno organizzata, è penalizzata dalla mancanza di notorietà di marca, dalla scarsa diffusione sul territorio, dalle minori risorse dal punto di vista organizzativo, gestionale, in comunicazione e digitalizzazione. Il presente e il futuro della ristorazione in catena si snodano attorno alla capacità di cavalcare i nuovi trend, ma anche di andare oltre alla dimensione del territorio attorno al locale, per presidiare il mercato in una logica di diffusione nazionale. Nascono così le dark kitchen, per arrivare con il delivery dove i locali fisici non sono ancora presenti.
Ci si interroga invece su quale canale fisico sia da preferire in questa era post-Covid, tra i Centri Commerciali che storicamente hanno agevolato lo sviluppo dei brand e i Centri Urbani, che paiono rifiorire con i loro dehors e le food court “spontanee”. Oggi la bilancia sembra pendere dalla parte delle cosiddette High Street delle città, visti le perduranti difficoltà di buona parte dei circa 1.200 centri commerciali italiani, ma soprattutto di quel 70% di piccole dimensioni che fatica a recuperare i livelli di affluenza (footfall) pre- Covid. Non solo, le catene lamentano rigidità contrattuali e costi non correlati al minor traffico attuale, orari di apertura che privilegiano il resto delle merceologie a discapito di quel 10% di attività di ristorazione che mediamente presidiano i Centri Commerciali.
Il futuro dei grandi marchi di ristorazione in questo canale passa attraverso il recupero di affluenza, la capacità di rinnovare l’offerta per attrarre clienti da parte di strutture che sono spesso obsolete, una maggiore flessibilità contrattuale e di orari, una composizione delle food court che sia più in linea con i comportamenti d’acquisto dei frequentatori dei centri commerciali. A prescindere dal canale, la crescita dei format food è ben lontana dall’essere terminata, se si guarda al tasso di penetrazione in Italia (8%) rispetto agli Usa (59%). Due fattori stanno contribuendo all’affermazione delle reti rispetto alla ristorazione indipendente: l’ingresso di capitali dal mondo della finanza e la crescente applicazione della formula del franchising. Investitori privati e istituzionali negli ultimi anni hanno cominciato a considerare il mondo della ristorazione in catena come una valida opportunità di diversificazione degli investimenti, dal momento in cui questo settore ha cominciato a muovere i primi passi verso le logiche manageriali di gestione correntemente applicate in altri ambiti dell’economia. L’ingresso in Italia di alcune note reti in franchising internazionali ha favorito il processo, ma al contempo ha fatto comprendere le potenzialità di questo strumento applicato alla ristorazione.
Solo dieci anni fa nel nostro Paese i “food franchising format” si contavano sulle dita delle mani, mentre oggi ci sono ben 160 franchisor che rappresentano oltre 4.600 franchisee e che nel 2021 hanno sviluppato un giro d’affari di più di 3,1 miliardi di euro, con una crescita dell’11% rispetto all’anno precedente (Fonte: Nomisma). Una formula, quella della franchising, che non solo permette una crescita più veloce e una diffusione capillare sul territorio nazionale, ma potrebbe consentire a tanti validi format di ristorazione italiana di sfatare finalmente il tabù della espansione internazionale.